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Equità generazionale e territoriale

A cura di onData, ActionAid Italia, BiPart, Labsus.
Hanno contribuito alla stesura di questo dossier: Andrea Borruso, Davide Del Monte, Stefano Stortone, Alessandro Mondino, Sara Cavaliere, Patrizia Caruso.


Introduzione

Come già illustrato nel dossier precedente sulle disparità di genere, il Piano nazionale di Ripresa e Resilienza si è posto degli obiettivi ambiziosi anche in termini di equità generazionale e territoriale.

Parliamo di obiettivi ambiziosi, perché i divari da colmare si sono costantemente allargati negli anni, fino a diventare delle vere e proprie voragini.

Per quanto riguarda il primo problema, il "IV Rapporto sul divario generazionale" della Fondazione Bruno Visentini e Luiss, presentato il 10 marzo 2022, evidenzia in modo inequivocabile come la disuguaglianza tra generazioni abbia raggiunto livelli senza precedenti: "la misurazione per il 2020 - fatto 100 il 2006 – rileva, infatti, 142 punti, ben oltre il picco registrato nel 2014 (138 punti), con un incremento sull’anno precedente (+12 punti). Questo dato conferma il fatto che le crisi sistemiche che colpiscono il nostro Paese, in questo caso la pandemia, hanno sempre un impatto generazionale asimmetrico che ricade maggiormente sulle fasce più giovani".

Non stupisce dunque il dato rilevato dall’ISTAT a gennaio 2022, secondo cui il tasso di disoccupazione tra i giovani si attesta al 25,3% con una crescita del numero di inattivi tra i 15 e i 64 anni (+0,6%, pari a +74 mila unità) frutto dell’aumento osservato tra le donne e tra chi ha meno di 50 anni.

Passando alla questione del divario territoriale - ed in particolare alla "storica" dicotomia nord / sud - i dati sono ancora più sconfortanti. Banca d’Italia, in un paper intitolato "I divari territoriali in Italia tra crisi economiche, ripresa ed emergenza sanitaria" pubblicato ad aprile 2022, rileva come "nelle regioni meridionali vive un terzo della popolazione ma vi si produce solo un quarto del PIL e origina solo un decimo delle esportazioni totali. Il Mezzogiorno rappresenta la più vasta e popolosa area di arretratezza economica dell’Europa occidentale. Dopo solo un ventennio di convergenza, da quasi 50 anni le regioni del Sud hanno smesso di avvicinarsi verso i più elevati standard economici del Centro Nord del Paese, rappresentando un’eccezione nel panorama internazionale caratterizzato, almeno fino alla crisi del 2008, da rilevanti episodi di riduzione dei divari all’interno di economie avanzate come USA, Spagna e Germania".

Il gap non è limitato alla sola dimensione economica, purtroppo, ma anche nel caso dell’educazione i dati raccolti da ISTAT offrono una fotografia in bianco e nero, dove il nero sono ovviamente le regioni del Sud: in queste regioni infatti solo Il 38,5% degli adulti ha il diploma di scuola secondaria superiore e solo il 16,2% ha raggiunto un titolo terziario.
Nel Nord e nel Centro circa il 45% è diplomato e più di uno su cinque è laureato (21,3% e 24,2% rispettivamente nel Nord e nel Centro)1.

Ancora Banca d’Italia evidenzia, in un paper pubblicato a luglio 2021, che le risorse destinate alla spesa pubblica per investimenti fissi lordi (al netto delle dismissioni immobiliari) e dei trasferimenti in conto capitale alle imprese erano il 4,5% del Pil 12 anni fa, mentre oggi sono sotto il 3% con la quota del Sud e Isole che si è ulteriormente ridotta e continua a calare dal 2015, mentre il Centro Nord ha avuto un piccolo sussulto intorno al 2018, ultimo dato disponibile.

Lo studio mette quindi in luce il divario infrastrutturale Nord-Sud, con più infrastrutture e maggiore efficienza al Nord, in particolare in Lombardia, e un sistema sempre più lacunoso man mano che si scende verso Sud.

Le politiche degli ultimi vent’anni non solo non sono riuscite ad avvicinare le regioni del sud a quelle del centro e del nord, ma hanno al contrario allargato il fossato che le separa.

E se la perdita di risorse economiche è già di per sé dolorosa, la perdita umana (non ci piace parlare di "risorse" o di "capitale", preferiamo parlare di essere umani) è ancora peggiore. Lo stesso paper sottolinea come "tra il 2007 e il 2019 la popolazione residente al Mezzogiorno si è ridotta, mentre è aumentata al Centro Nord. Al Sud, questa dinamica ha riflesso sia un saldo naturale negativo e in peggioramento sia le dinamiche migratorie, in particolare quelle interne. Secondo i dati dell’Istat nel complesso del periodo circa 475.000 persone hanno trasferito la propria residenza al Centro Nord, al netto di coloro che si sono trasferiti dal Centro Nord al Mezzogiorno. Un contributo negativo è provenuto anche dai movimenti da e verso l’estero, con una riduzione del saldo positivo che ha riflesso sia i minori ingressi dall’estero durante gli anni della doppia recessione, sia la forte crescita delle migrazioni di residenti dal Mezzogiorno verso gli altri paesi".

Di fronte a questa fotografia impietosa, il Pnrr, come detto, si prefigge l’obiettivo di invertire la rotta: migliorare la condizione dei e delle giovani e riavvicinare il sud al centro e al nord, le periferie ai centri città, le aree montane e remote a quelle urbanizzate.

Per riuscire nell’impresa, il Pnrr deve prima di tutto passare dall’approccio competitivo tra enti pubblici, ad un approccio solidale e collaborativo: chi ha di più deve anche aiutare chi ha di meno a raggiungere degli standard accettabili, non solo dal punto di vista economico ma anche di competenze. Non ha senso, in ottica di riequilibrio, costruire ad esempio nuovi asili nido dove già ce ne sono a sufficienza, perché il comune in questione è stato in grado di proporre un progetto nei termini prefissati, e non costruirne nessuno dove invece mancano, perché il comune in questo caso non è stato in grado di raccogliere la sfida.

Sacche di incompetenza e mala gestione, ma anche le carenze organizzative o di risorse, degli amministratori non devono ricadere, ancora, per l’ennesima volta, sui cittadini e le cittadine già più svantaggiati dal sistema.

In questo senso è essenziale una assunzione di responsabilità al livello centrale per garantire in maniera integrata e coerente una distribuzione delle risorse adeguata a colmare i divari territoriali esistenti. Si prenda ad esempio l’obiettivo che il Governo si è dato di destinare non meno del 40% degli investimenti del Pnrr con una destinazione territoriale specifica. Il rispetto di questo obiettivo è particolarmente importante per ridurre il divario tra Nord e Sud del Paese ma la logica competitiva adottata per allocare buona parte del Pnrr mina alle basi il raggiungimento di questo obiettivo, in quanto l’effettiva destinazione delle risorse dipenderà dall’adesione dei soggetti pubblici e privati ai bandi e dalla capacità progettuale, operativa ed amministrativa delle amministrazioni. Diventa quindi imprescindibile prevedere a monte dei meccanismi che garantiscano una allocazione delle risorse che tenga conto dei divari territoriali esistenti e di come questi si manifestino anche nella capacità di partecipare con successo alle procedure competitive.

In secondo luogo, è necessario che il percorso verso gli obiettivi prefissati sia partecipato e monitorabile: i cinque anni di investimenti che l’Italia ha di fronte a sé devono essere sfruttati al meglio e per il meglio di tutta la cittadinanza.

Il monitoraggio istituzionale deve essere accompagnato da un monitoraggio civico, ad opera delle organizzazioni e delle comunità che conoscono, animano e vivono i territori.

Il presente dossier ha lo scopo di aiutare le amministrazioni ad identificare quali dati rendere disponibili alla comunità, così da metterla in grado di partecipare fattivamente al raggiungimento degli obiettivi.

L’accrescimento delle competenze, della capacità e delle prospettive occupazionali dei e delle giovani, il riequilibrio territoriale e la coesione sociale, in particolare del Mezzogiorno e delle aree più svantaggiate, non possono avvenire senza che i protagonisti di questa storia, cioè tutti e tutte noi, prendiamo parte al percorso di cambiamento.

Ecco perché ci servono dati e informazioni, per agire consapevolmente nell’interesse comune.

I dati che vorrei: divario generazionale e territoriale

Proposte generali

Integrare e rafforzare le politiche

La stesura del Pnrr, come segnalato più volte dalla campagna #DatiBeneComune e da diverse organizzazioni della società civile, non ha potuto godere di un processo aperto ed inclusivo e per questo motivo non ha avuto accesso alle tante e rilevanti informazioni su comunità e territori in possesso del mondo associativo.

Guardando ora alla messa a terra sui territori è però necessario imparare dagli errori del passato e mettere a sistema dei modelli di attuazione e monitoraggio diversi: aperti, partecipati ed inclusivi.

È necessario innanzitutto mappare i dati che i comuni e gli enti locali raccolgono e gestiscono e, soprattutto, quelle informazioni che invece sfuggono dai loro radar, ma che sono in possesso di chi opera sul territorio.

Inoltre, molte informazioni essenziali non sono disponibili, poiché in questo processo va tenuta in conto l’oggettiva difficoltà di raccolta e digitalizzazione dei dati precedenti all’introduzione degli strumenti informatici.

I dati utili al monitoraggio devono dunque non solo essere liberati da PA, ma anche acquisiti dalla PA, perché spesso non li hanno o non se li fanno trasferire da realtà sociali e associative che invece, lavorando quotidianamente sul territorio, ne vengono in possesso.

Oltre ad essere condivisi e resi accessibili ai cittadini, è importante che questi dati vengano progressivamente acquisiti dalla pubblica amministrazione e integrati, almeno in parte nelle banche dati pubbliche.

Per chiarire l'impatto, riportiamo di seguito alcuni esempi:

  • enti erogatori (fondazioni ed altro), che nel corso degli anni hanno raccolto numerose informazioni attraverso i bandi e i progetti finanziati su temi di interesse generale e non (mappature e progettazioni sulle fragilità sociali, economiche e ambientali; sperimentazioni;

  • enti di ricerca e di formazione non pubblici (università ed altri);

  • enti del terzo settore;

  • istituzioni locali con finalità sociali ed enti caritatevoli (ex Ipab, confraternite, pro loco ecc.);

  • enti religiosi;

  • enti ed istituzioni culturali;

  • imprese sociali, cooperative;

  • fondazioni di comunità

  • privati e aziende

Per questi motivi è raccomandabile che i comuni, dai più grandi ai più piccoli, organizzino dei momenti di confronto con le organizzazioni del terzo settore che operano sul territorio, favorendo l’individuazione di dati utili ad entrambi ed uno scambio virtuoso degli stessi.

Processi solidali e non competitivi

In secondo luogo, per meglio comprendere questi dati e di conseguenza per meglio affrontare le problematiche che essi evidenziano, vanno tenute in considerazione due caratteristiche del nostro Paese:

  1. la conformazione territoriale, connotata da una miriade di centri abitati, ciascuno con una autonomia amministrativa, in un contesto geografico suddiviso tra pianura, collina e montagna.

  2. la conformazione anagrafica, contraddistinta da una popolazione anziana.

Entrambe le caratteristiche rendono oggettivamente difficile affrontare i problemi in analisi: nel primo caso, l’elevata frammentazione unita ad una contestuale concentrazione della popolazione in contesti urbani impedisce soluzioni scalabili e rende politicamente deboli i piccoli centri; anche nel secondo caso, vi è un mix letale tra la sottorappresentazione politica della popolazione più giovane, che la rende meno influente, ed il forte peso delle misure a favore dei più anziani sui conti dei nostri enti pubblici che drena risorse a discapito di ogni altro ambito.

In entrambi i casi, il peso politico risulta sbilanciato a favore di alcuni rispetto ad altri, con il rischio che ogni politica pubblica venga attratta lontano da coloro che ne avrebbero maggiormente bisogno.

E proprio in questo senso riprendiamo la raccomandazione fatta nell’introduzione: per avere successo il Pnrr deve riuscire a creare processi solidali tra le pubbliche amministrazioni, evitando al contrario processi competitivi che vedrebbero prevalere solo chi parte già avvantaggiato.

Per essere ancora più chiari: il Pnrr non deve essere utile ai comuni, ma ai cittadini e alle cittadine che vivono in qualsiasi comune, a prescindere dal fatto che sia amministrato e gestito bene o male.

Il caso del Borgo di Cavriglia - finanziato per 20 milioni di euro dal Pnrr - è un esempio significativo di intervento "corretto" in termini assoluti ma opinabile in termini relativi: quale criterio è stato utilizzato per destinare una cifra così ampia a questo borgo? Il budget poteva essere suddiviso tra più borghi oppure essere vincolato a progetti più scalabili o che prevedevano delle reti tra borghi?

Creare le condizioni a monte per scrivere bene un piano non è sufficiente, serve anche garantire tutte le condizioni a valle affinché esso sia implementato nella direzione e nei modi in cui si è prefissato di andare e agire.

Proposte specifiche

Fatte le doverose premesse di visione ed indicata la direzione generale che ci auguriamo possa essere intrapresa al più presto, riportiamo di seguito alcune raccomandazioni e richieste specifiche che riteniamo fondamentali, se si ha a cuore il monitoraggio dell’impatto del Pnrr.

  • Verticalizzare alcune esperienze o esempi a livello comunale;

  • Identificare almeno un set minimo di dati necessari per misurare l’impatto del Pnrr sui territori, partendo dai dati "baseline" (T0) che consentiranno di monitorare T1, T2 etc;

  • Mantenere una visione e un approccio intersezionale, necessario per poter agire anche sull’inclusione degli invisibili.
    Come per il punto precedente, è necessario innanzitutto identificare tutte le diversità.

  • Promuovere processi partecipativi di monitoraggio, tracciando dove e come gli enti locali e le pubbliche amministrazioni li stanno attuando e quanto questi siano realmente inclusivi.

I dati principali che se pubblicati in formato aperto sono in grado di porre le basi per un processo di monitoraggio e valutazione di impatto efficace, sono i seguenti:

  • Popolazione (distribuzione sul territorio per età, reddito, scolarizzazione,popolazione attiva/non attiva, cittadinanza, Tassi di occupazione/disoccupazione.);

  • Salute (distribuzione malattie, spese mediche, servizi sanitari);

  • Sociali (distribuzione casi fragilità, attivazione servizi sociali, presenza realtà dell’associazionismo, informazioni sui reati, dispersione scolastica, presenza di impianti sportivi e altri luoghi di aggregazione);

  • Beni ad uso sociale (scuole, biblioteche, beni confiscati, patrimonio immobiliare pubblico);

  • Progetti sociali partecipativi (progetti partecipativi e sociali sul territorio presenti e passati con informazioni su protagonisti).

Coesione sociale e riequilibrio territoriale

Gli interventi mirati al raggiungimento di questi obiettivi rappresentano il 10,34% del budget totale messo a disposizione dal Pnrr, per un totale di 19,85 miliardi di euro, e si concentrano nelle missione n.5.

Quando si parla di coesione sociale e riequilibrio territoriale, è bene distinguere tra i livelli di indagine: tra aree del Paese (nord-sud), tra aree territoriali (costa-montagna) e all’interno delle aree urbane (centro-periferie). Per ciascuno di questo livello è necessario analizzare diversi tipi di dati. In generale, tuttavia, i più rilevanti sono quelli che dimostrano la presenza di attività, servizi e infrastrutture.

Se ci concentriamo sugli ultimi due livelli, parliamo di:

  • esercizi commerciali

  • impianti sportivi o palestre

  • spazi e luoghi per attività e eventi culturali (librerie, cinema, teatri, piazze, etc.)

  • servizi pubblici o di welfare essenziali (biblioteche, presidi sanitari, etc.)

Data la granularità della conformazione antropologica dell’Italia, non possiamo pretendere che ogni centro abitato sia uguale nei servizi e nelle infrastrutture. Per questo motivo, riteniamo importanti altri tipi di dato che possano compensare questo limite intrinseco::

  • la distanza del centro abitato dal o dai servizi

  • la presenza di mezzi di trasporto pubblici o accessibili

  • la qualità delle infrastrutture per ogni tipo di mobilità: veloce o lenta.

  • i mezzi di trasporto privati a disposizione della popolazione, a seconda della conformazione morfologica del territorio

Per poter risalire ad alcuni di questi dati, oltre all’importanza di un confronto, è importante disporre di dati comparabili provenienti da altri territori.

Altri dati che è importante monitorare e che indirettamente possono accorciare questo gap sono quelli legati alla digitalizzazione, in particolare:

  • la presenza di banda larga

  • il numero di contratti internet

  • percentuale di contratti internet con banda larga

  • abbonamenti mobile con pacchetto dati

  • consumo procapite di banda.

Riequilibrio generazionale

Il riequilibrio territoriale è in parte collegato con quello generazionale, poiché il secondo si verifica maggiormente nei grandi centri urbani, dove si concentra la maggior parte della ricchezza e dei servizi.

Quando si parla di dati generazionali non possiamo non pensare a quelli più immediati come il tasso di disoccupazione giovanile, il rapporto tra disoccupazione giovanile e disoccupazione generale, la percentuale di NEET.

Tuttavia questi sono dati che certificano la malattia ad uno stato terminale e non permettono di individuare i sintomi e le cause. E’ necessario monitorare tutti quegli aspetti di disparità occupazionale e reddituale, di dispersione scolastica e povertà educativa, nonché di accesso a tutte le opportunità - attività e servizi (tra cui anche palestre, musei, biblioteche, centri di aggregazione - che possono ridurre i divari esistenti. Da questo punto di vista alcuni dati che reputiamo importanti sono:

  • il numero di borse di studio

  • il numero di asili nido

  • il costo medio di asili nido

  • la mobilità dei giovani

  • il numero di laureati

  • il rapporto tra le classi dei neolaureati e le categorie produttive

  • l’età media dei lavoratori

  • l’età media dei lavoratori con posizioni dirigenziali.

  • l’età media degli imprenditori.

  • il rapporto tra età dell’imprenditore e fatturato/numero dipendenti.

  • il rapporto tra età e scatto contrattuale

  • l’occupazione giovanile nei diversi settori di impiego, in particolare quelli di interesse del Pnrr, più innovativi e/o più critici.

  • il rapporto tra reddito e età tra le P.IVA

  • il rapporto tra reddito e età

  • utilizzo dei congedi parentali obbligatori e facoltativi;

Riequilibrio generazionale non vuol dire solamente giovani vs. adulti, ma anche anziani vs. età produttiva, laddove la produttività di un individuo sembra essere il paradigma di riferimento per valutare le politiche pubbliche.

Riequilibrio relazionale

Tutti i dati elencati non toccano il tema sollevato all’inizio di questo report, cioè da chi e come vengono definite le politiche pubbliche. In altri termini, è sufficiente avere a disposizione questi dati per invertire la rotta? O piuttosto è necessario monitorare anche altri dati più "meta", in grado di andare oltre quelli puntuali, appena più sopra elencati?

Riteniamo infatti che i dati elencati nei paragrafi precedenti possano essere utili a misurare le disparità, ma non a prevenirle e ridurle.

A questi indicatori (e quindi a queste politiche) vanno aggiunti anche quelli di carattere relazionale e cioè capaci di misurare (e stimolare) il grado di collaborazione tra territori e tra soggetti. Le cosiddette "infrastrutture sociali". Da questo punto di vista, possiamo citare:

  • il numero di iniziative e strumenti di partecipazione dei cittadini attivi (patti di collaborazione, patti educativi di comunità, bilancio partecipativo, patti di integrità, iniziative di monitoraggio civico, referendum);

  • il numero di associazioni o gruppi informali;

  • il numero di incontri tra istituzioni e cittadini;

  • la distribuzione del 5 x mille tra le realtà del territorio;

  • il tasso di ricambio delle persone in posizioni di responsabilità;

  • il rapporto tra tasso di emigrazione/immigrazione;

Questi dati ci permettono infatti di monitorare quello che per noi è cruciale per una democrazia, ovvero le opportunità di collaborazione e di deliberazione. Attraverso questi indicatori non è possibile misurare le reali motivazioni alla base delle decisioni individuali, ma si può sperare che decisioni prese in buona fede (in un contesto di asimmetria informativa) non scontino di un gap di conoscenza e che decisioni prese in malafede possano trovare ostacolo in una società più organizzata, cosciente e coesa.

Inoltre, ci auguriamo che chi già detiene più risorse possa metterne a disposizione una parte per chi ne ha di meno, in un’ottica di collaborazione e redistribuzione, ed in parallelo che chi non ha risorse possa raggiungere un grado di empowerment maggiore per impedire che le risorse vengano sottratte alle proprie necessità

Conclusioni

Informazioni e dati sono un elemento essenziale per l’attuazione di molti diritti, strumenti fondamentali per esercitare nuove forme di cittadinanza attiva. Per questo i dati sono da considerarsi come un vero e proprio bene comune.

Rilasciare i dati ed auspicare politiche pubbliche capaci di educare la cittadinanza a saperli leggere e, di conseguenza, usarli, non è tuttavia più sufficiente. E’ necessario altresì "liberare le istituzioni" da procedure decisionali rigide e escludenti e lavorare sull’amministrazione condivisa di questi beni, amministrazioni e cittadini insieme, sperimentando forme sostenibili di coinvolgimento dei cittadini, sia in fase programmatica e progettuale - con processi di co-decisione e co-progettazione che in quella attuativa, con processi di monitoraggio.

Per chi ha a cuore la democrazia, è naturale pensare che il benessere di una comunità non possa derivare dalla capacità o dalla benevolenza di una o di poche persone, né possa essere garantito sotto qualsiasi sistema politico. Affidare le decisioni pubbliche a cittadini democraticamente eletti, disporre del migliore personale amministrativo, avere documenti di programmazione ben scritti e regole stringenti sono dei requisiti minimi di buon senso. Ma forse c’è bisogno di qualcosa di più e quel qualcosa in più si trova nei dati relazionali che abbiamo individuato come trasversali.

La peculiarità di questi dati relazionali è quella di produrre a loro volta altri dati, che chiameremo caldi o fertili per distinguerli da tutti quei dati freddi o sterili che non sono il frutto di attività politiche o partecipative ma economiche o civiche e che, per questo motivo, non sono in grado di generare nuovi indicatori.

Spesso infatti non bastano misure individuali o risorse ben distribuite, ma è necessario agire anche su dinamiche relazionali in grado di cambiare le percezioni e le sensibilità individuali e di spingere le persone a seguire questo cambiamento non con l’attrattiva delle sole maggiori risorse economiche, ma in virtù di una maggiore coscienza civica e consapevolezza delle opportunità.

In altri termini, serve uno sforzo collettivo di apprendimento e di consapevolezza, che sappia rompere il meccanismo discriminante secondo cui solo una parte della comunità può decidere per conto dell’altra e disporre delle risorse per farlo. Serve un cambiamento non di politiche ma di processi in grado di includere anche la "parte debole" e mancante della comunità nell'analisi e nella comprensione dei problemi e nella loro risoluzione, sia in termini decisionali che operativi.

In parallelo, serve la promozione di una nuova e diversa cultura politica, in cui la partecipazione attiva dei cittadini non sia vista in termini di rallentamento dei processi decisionali o, peggio, nell’ottica di un populismo diffuso da evitare ed allontanare.

Potere e conoscenza vanno di pari passo: il primo dispone degli strumenti per accedere alla seconda, e la seconda è uno degli asset più importanti per accedere al primo. La difficoltà nell’ottenere trasparenza ed accesso ai dati ed alle informazioni può essere spiegata anche da queste dinamiche.

Fonti e iniziative utili per approfondire il tema: